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La Fabbrica di mattoni rossi

Camillo

 

 

Questa biografia scritta per il centenario della fondazione della Fabbrica di mattoni rossi di Ivrea non lascia nulla alla fantasia, anche se il personaggio di Camillo Olivetti, fondatore di quella che sarebbe diventata la più prestigiosa azienda italiana nel mondo, potrebbe essere un romanzo con un personaggio di grande fascino e spessore.

L’autore, partito con l’intento di comporre un’opera celebrativa, dopo un’intenso lavoro di ricerca presso l’Archivio storico Olivetti di Ivrea e forte del ritrovamento di una gran massa di lettere e documenti, ha deciso di far parlare il soggetto della biografia pubblicando pressoché integralmente le lettere e i documenti più significativi accompagnandoli nel loro dipanarsi temporale e storico con un commento personale teso a inquadrare, capitolo dopo capitolo, la storia di un geniale industriale che dalla nascita del primo socialismo italiano fino alla promulgazione delle leggi eccezionali fasciste, ha attivamente partecipato, prima come militante di rilievo nel partito socialista, poi come editore e giornalista dei due periodici da lui fondati alla vita politica del nostro Paese. Ne è emerso un quadro di grande interesse che può aiutare ad interpretare in modo meno convenzionale il travaglio politico di molti uomini della sinistra democratica dell’epoca che non vollero cedere alle tentazioni, della facile demagogia prima e dell’assolutismo poi.

Camillo Olivetti racconta quindi se stesso, la sua storia, il suo carattere: dagli anni del viaggio negli Stati Uniti con il suo professore: Galileo Ferraris dove scopre un mondo che influenzerà tutto il suo pensiero e che sarà propedeutico al suo divenire industriale ma che soprattutto lo farà diventare un socialista pragmatico, come pochi ce ne furono all’epoca.

Le sue lettere sono pure una chiave di lettura del personaggio, il suo rapporto di odio per la borghesia eporediese e d’amore per Ivrea e il Canavese. Nelle lettere alla famiglia emerge l’attaccamento per la moglie  e i figli inquadrandoci un simpaticissimo democratico despota, fino al crepuscolo di quella vita dove riscopre dopo tante delusioni politiche il valori religiosi che lo portano ad abbracciare la fede Unitariana e successivamente a morire esule per sfuggire all’occupazione dei nazisti per le sue origini ebraiche.

 

 

 

PREMESSA DELL'AUTORE

 

La prima volta che vidi la Olivetti avevo sedici anni.

Mio padre, come me, trentacinque anni prima era sceso anche lui da quel treno, in quella stazione. Entrambi avevamo trovato, appena voltato l’angolo, la fabbrica di mattoni rossi. Un’unica differenza: io quella “fabbrichetta” non la notai neppure, il mio sguardo spaziava su un panorama industriale fatto di grandi vetrate che si perdevano all’orizzonte. Si stava realizzando infatti la nuova ICO, dove sarebbero state costruite quelle calcolatrici che, dopo le macchine per scrivere, avrebbero fatto ancora più grande e prestigiosa la Olivetti.

Allora il “padrone” della Olivetti si chiamava Adriano e io non lo conobbi mai: lo avrei conosciuto se, quando ero diventato membro della Commissione Interna di fabbrica, fosse stato ancora vivo. Morì nel 1960 dopo aver acquistato la Underwood, un’azienda americana che produceva macchine per scrivere a migliaia, quando ancora in Italia nessuno le costruiva: con lui morirà lentamente anche quella fabbrica, e la dinastia industriale degli Olivetti si fermerà alla seconda generazione.

Tornando a mio padre, Pietro Giraudo, lui sì, aveva lavorato dentro la fabbrica di mattoni rossi. Fu licenziato dalla Fiat nel 1920, assieme a duecento altri “fascisti” di fabbrica, vittima del prezzo che Giovanni Agnelli aveva dovuto pagare per chiudere quell’interminabile stagione di lotte più politiche che sindacali. Gli storici lo chiamarono “il biennio rosso” e molti di loro lo indicarono come una delle cause scatenanti del fenomeno fascista.

Mio padre fu non solo licenziato, ma anche massacrato da una scarica di chiavi inglesi che lo ridussero quasi in fin di vita. Erano tempi violenti quelli, una violenza che oggi si direbbe trasversale. Chi nella circostanza aiutò mio padre fu un ingegnere di Ivrea, che aveva conosciuto quando era ancora un socialista rivoluzionario. L’aveva poi rivisto e frequentato nel periodo della prima guerra mondiale quando, dopo aver fatta la scelta interventista con Mussolini, era stato nominato nel Comitato di Mobilitazione Industriale di Torino.

Quell’ingegnere si chiamava Camillo Olivetti. Era uno strano tipo di industriale socialista che aveva preso in simpatia un operaio semi-analfabeta, dotato però di grande personalità. Saputo che era nel Comitato, lo aveva spinto a sostenere le sue battaglie in un organismo che, nato per pianificare lo sforzo bellico, era ahimè caduto nelle mani di speculatori e burocrati. Si andò così consolidando un rapporto di stima e amicizia per cui mio padre, un fascista della prima ora, licenziato da un padrone liberale, fu assunto da un altro padrone, questa volta socialista. Strani tempi quelli…

  Mio padre fu il primo manutentore delle macchine per scrivere Olivetti in Torino: da operaio diventò piccolo imprenditore e, finché non fu epurato, conservò per la Olivetti quell’incarico. Ma questa è un’altra storia.

 

1908-2008: cent’anni fa riapriva i battenti la fabbrica di mattoni rossi sulla via che da Ivrea porta a Castellamonte, il paese dei miei avi materni. La mia andata a Ivrea era quindi un ritorno alle origini, paterne per via del lavoro e materne per territorio.

Non rimasi molto nel capoluogo canavesano: il tempo di sposarmi, iniziare a fare il “socialista”, entrare in Commissione Interna e poi, dopo la scissione dello PSIUP, avvenuta nel 1964, ritornare a Torino per entrare nell’apparato della FIOM, rimasto desolatamente sguarnito per la fuoriuscita dal partito di troppi sindacalisti. Tornato negli anni Settanta alla normalità di un lavoro autonomo, seguii le vicende della Olivetti con distacco.

Lasciata la politica attiva, che spesso costringe a viaggiare con il paraocchi, incominciai una lenta revisione delle mie convinzioni, facendomi guidare dall’esperienza e lasciando che l’età più matura annacquasse gli estremismi giovanili. Ripensai alle vicende paterne che, come quasi tutti i figli, avevo rimosso o sottovalutato, e decisi di scriverne per lasciare ai miei figli (e nipoti) non solo la biografia di un nonno (e bisnonno), ma alcune considerazioni di carattere storico sul perché un operaio socialista fosse diventato fascista. Freudianamente, era il tentativo di illustrare ai pargoli (peraltro quarantenni) perché anch’io avessi lungo la strada cambiato parere.

L’incontro con Camillo Olivetti era perciò inevitabile, tanto che mi lessi le poche biografie in circolazione. Per stendere il libro sulla storia di mio padre, tuttavia, confesso di avere usato il personaggio in modo strumentale. Mio padre era stato un politico naïf e irruente e, non potendo vedere quel periodo solo con i suoi occhi, Camillo diventò il saggio grillo parlante a cui mettevo in bocca le obiezioni all’entusiasta fideismo paterno, critico sì verso i fascisti, ma ingenuamente acritico nei confronti di Mussolini.

Alla luce delle ricerche che feci successivamente sull’ingegnere di Ivrea, mi resi conto che in molti campi ci avevo azzeccato. Per questo quando la Hever, una vivace casa editrice eporediese, mi propose di scrivere la biografia di Camillo in occasione del centenario della fondazione della società Olivetti, dissi di sì con entusiasmo e un tantino di presunzione.

Si trattava di fare qualcosa di diverso rispetto quanto scritto finora, per altro in modo ineccepibile da persone sicuramente più preparate di me: e poiché la diversità non poteva consistere nella biografia dell’industriale, mi accinsi ad approfondire l’uomo, soprattutto il politico.

La mia intenzione era di dare al lavoro un taglio consueto, sennonché, recatomi all’Archivio Storico Olivetti, ultimo baluardo con la fondazione di quella che si è convenuto individuare come la “cultura olivettiana”, scoprii che esisteva una gran mole di corrispondenza che Camillo aveva tenuto: con la famiglia, gli amici, i collaboratori, ma anche con i personaggi più estemporanei. Decisi quindi di lasciar parlare lui e riportare, sovente integralmente, quanto aveva scritto.

Scoprii inoltre che Camillo aveva tentato la via editoriale, pubblicando due settimanali proprio nel periodo più delicato della storia di quegli anni, dal 1919 al 1924; non solo, ma che oltre all’editore aveva fatto pure il notista politico: pensai perciò di riportare fedelmente i suoi articoli e quelli dei collaboratori che mi erano sembrati maggiormente vicini al suo pensiero del tempo.

Già per il lavoro su mio padre avevo letto con attenzione l’opera monumentale di Renzo De Felice su Mussolini e il fascismo; in precedenza avevo letto e apprezzato Togliatti e Mussolini Socialfascista di Giorgio Bocca, nei quali avevo scoperto il primo vero revisionismo. Decisi quindi di accompagnare la storia di Camillo, narrata in gran parte da lui, con un minimo di inquadramento storico, man mano che la biografia si dipanava.

La storia industriale di Camillo termina praticamente sul finire degli anni Venti, quando cede lo scettro aziendale ad Adriano, il suo primo figlio maschio. Terminano contemporaneamente anche le corrispondenze politiche (a Camillo per un certo periodo venne ritirato il passaporto) e quindi non ho approfondito, se non per sommi capi, i cosiddetti “anni del consenso”.

In realtà la vita industriale, e anche quella politica, del nostro personaggio si era conclusa, lasciando il posto a una lunga stagione religiosa che non ero e non sono all’altezza di commentare.

Fu Adriano a far grande la Olivetti? Certamente.

Adriano però ha ereditato non solo la fabbrica, ma il pensiero di Camillo, evolutosi naturalmente col passare del tempo e il mutare del contesto. La fabbrica, quando Camillo si chiama fuori, ha in sé praticamente tutte le componenti essenziali per ciò che Adriano la farà diventare. Colpito dalle leggi razziali, Camillo dovrà nel ‘38 cedere la presidenza della Olivetti, ma è lui stesso a scrivere a un amico che vive in Australia: “Ora che non sono più il presidente, Adriano mi da retta più di quando lo ero”. E sarà proprio Adriano a riconoscere il genio di Camillo. Tutto quanto il figlio farà di sostanziale, avrebbe in ogni caso avuto l’approvazione del padre.

Al termine di questo lavoro posso onestamente affermare che Adriano fu un continuatore, un grande, un grandissimo e geniale continuatore: tanto nell’industria, quanto nelle idee. Questo è il vero monumento a Camillo, un monumento alle spalle del quale, nonostante la distrazione degli irriconoscenti eporediesi, sempre scorrerà l’acqua della cerulea Dora.

 

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